mercoledì 19 ottobre 2011

RECENSIONE DEL RACCONTO "Fillu de Anima"


RECENSIONE DELLA PROFESSORESSA MARIA GERMINARIO CALZI

Antonio Giuseppe Abis, l'autore de Fillu de anima, riprende il suo articolato narrativo, sempre in controtendenza, essendo la sua tenace aspirazione a tenersi ben lontano dal linguaggio e dalle idee della modernizzazione letteraria sempre più avanzata, non certo perché del nostro tempo non ne accetti il cambiamento, ma per la maturata consapevolezza che la vera innovazione trasgressiva, oggi, è riposta nella riscoperta della tradizione, quella non scritta, che ci consente di meglio penetrare il mistero del vivere. E' il suo un personalissimo modo per confermare di esserci e per esprimere gratitudine di esserci sempre stato nel calendario di quel tempo vissuto a Gonnostramatza, sempre attento alle più riposte sinuosità della sua gente, scrupoloso custode dei fondamentali archetipi del suo vivere. Abbeveratosi alla sorgente di quella civiltà pastorale (non bucolica) e contadina, aprendo il taccuino delle sue preziose memoria, ci rende partecipi del vissuto di quella piccola comunità, il cui cuore pulsante respira nella proiezione della sua composita famiglia, primigenia realtà di secolare avvicendamenti umani, di incroci matrimoniali allargati ai paesi vicini. Nell'intricato dedalo di esperienze faticosamente vissute, si affaccia in dinamico equilibrio la parità dei sessi non alterata dalla industrializzazione non pervenuta; le donne per essere anche portatrici di nuova vita si impongono nel circolare gioco delle parti nel loro ruoli ben definiti ma non invalicabili. In questo paese isolano quasi astorico (se non fosse per le ricadute delle guerre e della pestilenza che generano vittime impreviste) l'umanità che lo abita non disdice il suo destino, si affida, mai rassegnata, alla sua tenace voglia di vivere e migliorare e il troppo tragico e il poco gioioso che avanza, nel fluire ininterrotto del tempo nutre gesti, relazioni, corrobora parole in lingua naturale, perfeziona operatività tramandate,sollecita emozioni e sentimenti che si fanno per noi strade di senso. La parsimonia non in contrasto con la generosità permette alla famiglia di aprirsi ad altri come alla forestiera amabilmente integrata, nonna Margherita, divenuta parte integra non supplementare; nella galleria di molteplici vite oscure mai comunque banali, irrompe il binomio mamma Ninna – nonna Margherita, due creature in sintonia empatica, più forti della non speranza, espressioni, la prima, di una civiltà più avanzata (sa leggere e ricamare, amministra anche il frantoio), l'altra sa tessere, cucire, coltiva la terra, segue gli animali domestici, sa lavorare la farina e fare il pane, è analfabeta, ma è in legame organico con gli esseri umani, con la natura, con i prodotti della terra, con gli animali. Sono madri entrambe, con due diverse ma complementari espressioni di maternità, convinte che per quanto dura la vita merita di essere vissuta e difesa sempre; sanno accettare con gratitudine e ricambiare con generosità, usano la loro intelligenza naturale e le voci profonde del cuore reciprocamente rafforzandosi nell'essere se stesse nel logorante cammino, facendosi ragionevole scudo di credi millenari come attestano i testamenti spirituali e la consegna ultima di tutta la loro vita. Non guida il racconto la voce professorale, ciò che arriva dai professori non sempre è chiaro agli allievi, né spendibile nella vita, chi ha titolo ad educare, anche nella veste di madre supplente è l'analfabeta nonna Margherita che possiede una peculiare identità personale, fino a scoprirne il marchio quasi a fuoco, titanica volontà sempre impegnata a costruire il futuro (non per sé), radicalmente innervata nei semplici mezzi della sua corposa saggezza, padrona riconosciuta di molteplici attività pratiche assorbite e perfezionate, sempre piegata alla protezione di Dio che veglia dall'alba al tramonto e si presenta nei quotidiani gesti: la croce sul pane quotidiano e su quello fatto per gli sposi e per i morti e nei riti devozionali; nei momenti tragici e solenni, quel Dio che si fa calmante del dolore esistenziale è anche il sorriso che riscalda i cuori tormentati dal gelido freddo di un destino opprimente, quando non basta più la morbida orbace bianca a ripararsi. Sono pagine che non si sfogliano, si leggono attentamente per addentrarvisi come negli scavi archeologici, avvalendosi anche della suggestiva e sintetica lingua naturale, soprattutto quella in versi che scioglie il grumo di antiche e ancora vive memorie e che valorizza l'alfa e l'omega del senso del vivere.

1 commento:

  1. Da piccola credevo che il mondo dei miei avi fosse in bianco e nero – come nelle foto che li ritraevano bambini, spesso in controluce, immersi in un’atmosfera agreste e cullati dalle braccia forti e materne di eterne madri. Come nei miei sogni più antichi, 'Fillu de anima' è una storia interamente in bianco e nero: perché di questi due sacri e necessari colori possiede la forza, il carisma, l’essenzialità di fronte alla quale tutti gli altri colori risulterebbero frivoli, inutili. E così, gli orti e i pascoli descritti dall’autore risultano, nella suggestione della lettura, di un grigio appena accennato, ma superbo, così come i grembiali delle donne paiono non solo splendere, ma riverberare d’intorno tutto il bianco riflesso capace di dar luce alla natura – nella sensazione che senza quell’unica luce matriarcale, di una femminilità interamente coincidente con l’essere madre, senza quelle ampie vesti preziose di lavoro, l’intero creato rimarrebbe al buio.
    Ma non pare sentirsi nostalgia, nemmeno nel piccolo Peppi bambino, della passionalità del rosso o della delicatezza erbosa del verde: perché ogni colore sembra essere assorbito dalla desolante serietà della storia – e restituito in veste nuova, fatta unicamente di contegno e dolore, ma ugualmente densa di passione e delicatezza: queste rese ancora più intense, forse, dalla logorante ‘assenza’ che le avvolge.
    La vita del giovane protagonista è uno struggente tentativo di possedere quei colori assenti, quella leggerezza infantile e innocente che la vita sembra negargli. Ma non c’è innocenza nel mondo lucido di Arradeli. O, forse, c’è l’unica innocenza possibile: quella di nonna Margherita, che nello strazio della perdita, con dignità e fierezza può permettersi di affermare: ‘Le persone non muoiono mai’.

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